Visitor counter, Heat Map, Conversion tracking, Search Rank

 

 

 

Print
 Da 40 anni la strada è la mia parrocchia
Oggi   Mercoledì, 21 Dicembre 2005 00:00
 
Un prete guerriero non invecchia. Fame e sete di giustizia lo mantengono vivo e forte come un fuoco che non si spegne mai. Sono passati quarant'anni da quando, nel Natale del 1965, il ventenne, futuro don Luigi Ciotti (prenderà i voti solo sette anni dopo) fondò a Torino il suo Gruppo Abele. Dedicandola al mite fratello ucciso da Caino, chiamò così la storica, scomoda organizzazione di volontari al servizio del “popolo della strada” che in questi giorni festeggia quattro decenni di attività. Per pruno il gruppo prese di petto droga, prostituzione, criminalità minorile, problemi dai nomi allora perfino impronunciabili. Quarant'anni in prima linea tra barboni, tossici, alcolizzati, poveri. Quelli di Scampìa, per esempio, il quartiere napoletano insanguinato dalle faide di camorra dove don Ciotti (fondatore anche di Libera, l'associazione in lotta contro tutte le mafie) nei giorni scorsi ha distrutto un po' di pistole giocattolo con la complicità dei suoi innocenti amici di sempre: i bambini. “Li adoro, i bambini di Scampa”, ammette don Ciotti, lo sguardo che per un attimo indugia intenerito. Ma poi torna mobile, teso, attento. Una scorta di guardie armate fino ai denti veglia a qualche metro dal rifugio dove incontro quest'uomo di Dio che i narcotrafficanti vogliono morto e al quale lo Stato ha imposto un costante regime di protezione. “Amo e stimo quei piccoli”, riprende, “li considero il mio presente, altro che il “nostro futuro" ingrata espressione con cui comunemente la società liquida i nostri figli, rinviando a domani attenzioni e responsabilità dovute invece subito” Dopo la messa, celebrata nella chiesa della Resurrezione, i bambini hanno consegnato le loro armi giocattolo, ammucchiandole in alte pile ordinate. A premiarli per questo gesto innocuo ma carico di valore simbolico (quanti di loro vedono armi vere dentro casa!) è arrivato il mago Sales, un salesiano-illusionista che in cambio delle pistole ha regalato tante magiche «bacchette della legalità», asticelle che prodigiosamente esplodevano da contenitori simili a bossoli di pallottola. Quante responsabilità abbiamo verso questi ragazzini che vivono nelle Vele, casermoni lager che gli uomini dei clan hanno trasformato in centrali dello spaccio. Il giornalista Carlo Siani, ucciso dai camorristi vent'anni fa, descrisse per la prima volta, nomi e cognomi, la realtà dei «muschiddi» (i moscerini), i bambini delle periferie di Napoli arruolati nell'esercito della droga da adulti che li costringono a smerciare roba in cambio di poco più di un gelato. «Delinquenti non si nasce, ma si diventa», era lo slogan di denuncia della situazione nelle carceri minorili che il Gruppo Abele tenne a lungo affisso su un tendone in piazza Carlo Felice, a Torino, nell'ottobre del 1973, scatenando un pionieristico dibattito sui percorsi penali alternativi per i minori a rischio. «Lavorava con le carceri già da otto anni, dal giorno stesso che il Gruppo era nato, e collaboravamo con gli istituti ogni volta che non riuscivamo a strappare dalla strada ragazzi che si mettevano nei guai, finendo in prigione al Ferrante Aporti (se erano maschi) o al Buon Pastore, l'istituto di rieducazione destinato alle minorenni problematiche. «Ovunque vedo un piccolo che "fa fatica", a Torino come a Scampìa, rivedo me stesso alla sua età. Come tanti minori difficili incontrati in quarant'anni, anch'io sono stato un bambino discriminato con il marchio di cattivo. E come tanti figli di immigrati di oggi, provai fino in fondo il dramma cocente di sentirmi un diverso. Mi capitò a sei anni, sul banco di prima elementare di una scuola di Torino dove ero emigrato dalle montagne di Pieve di Cadore con mamma e papà muratore. Mio padre, insieme con il suo cantiere, si era spostato in quella città per costruire il futuro Nuovo Politecnico. Esasperato, un giorno tirai il calamaio alla maestra che mi aveva insultato dandomi di fronte a tutti del "montanaro", e dopo soli venti giorni di frequenza venni espulso da quella scuola dove non potrò tornare mai più. Con gli anni imparerò a controllare la rabbia e a non rispondere alla violenza (in quel caso solo verbale) con la violenza. Ma le mie ragioni di bambino incompreso le avevo tutte. Nervosa per motivi suoi, entrando in classe e sentendo rumoreggiare, la maestra se l'era presa con me che me ne stavo seduto al primo banco e non avevo fatto proprio niente di male. Sorpreso, le chiesi "che vuoi?", unendo le dita nel tipico gesto della mano, provocando le risate dei miei compagni divertiti da quella mia spontaneità naif. Quel "che cosa vuoi tu, montanaro?", mi piombò addosso più brutale e ingiusto di una raffica di schiaffi. Quella donna colpiva le mie origini, le mie adorate Dolomiti, la dignità della mia famiglia che nelle ristrettezze non era stata in grado di comprarmi grembiulino e fiocco come gli altri bambini, ma che io amavo più di qualsiasi cosa al mondo. La maestra aveva colpito il più debole, il più vulnerabile, come accade di fare a molti adulti. Ma conobbi anche tanti "grandi" buoni, e quelli furono lamia fortuna, insegnandomi molto di quello che so, e che utilizzerò nella mia lunga militanza sul marciapiede. «Furono fondamentali gli operai del cantiere di papà, all'interno del quale vivevo con i miei in una baracca che ci era stata assegnata, non avendo noi denaro sufficiente per affittare una casa come si deve a Torino. Era molto modesta, ma quella baracca per me è stata l'abitazione più bella del mondo. Dentro al cantiere non mancavano mai le risate e la compagnia. 1 manovali erano le mie "tate". alla cresima il gruista mi fece da padrino. E trovai consolazione tra le braccia di quei lavoratori anche quel giorno tremendo del 1954. Quando la tromba d'aria che spazzò via un pezzo di Mole Antonelliana devastò anche la nostra casetta e battemmo i denti per il freddo. « Ma non mi ha mai spaventato la povertà materiale. Molto di più la disperazione dell'anima. La incontrerò quando sarò un po' più grande. A diciassette anni, quando dai finestrini del tram che mi riportava a casa, vedrò per la prima volta un barbone avvolto in tre cappotti, con un libro di medicina tra le mani, immobile su una panchina di corso Vittorio, a Torino. Quell'uomo si chiamava Gennaro ed era un ex chirurgo finito lì perché un giorno, sbagliando un intervento, aveva ucciso una madre di famiglia e per il senso di colpa era come impazzito. Sembrava sordomuto, perché non rispondeva a nessuna domanda, come non sentisse né avesse più riflessi. Andrò a trovarlo ogni giorno, finché si scioglierà. "Vedi quel bar di fronte?", mi chiederà. "Tanti ragazzi si fanno lì dentro, tutte le sere, sballando con `bombe' fatte di anfetamine miste ad alcol. Sono vecchio e stanco, non posso fare niente, io. Pensaci tu, Luigi". «A quei tempi nessuno parlava di droga, come se non esistesse, ma Gennaro era un bravo medico e mi aveva spiegato le cose con competenza, illuminandomi sul mio destino. Morirà poco dopo, di polmonite fulminante e di solitudine, nell'inverno del 1962. Con il suo "testimone" tra le mani, tre anni dopo fonderò il Gruppo Abele (che tra i seguaci del Vangelo conta anche non credenti, ebrei, ortodossi, valdesi, musulmani) e solo dopo entrerò in seminario. Ordinandomi sacerdote, il mio vescovo, Padre Michele Pellegrino, rassicurerà "il mio popolo". "A don Luigi affido una parrocchia", disse rivolgendosi ai miei amici, "la sua parrocchia sarà la strada"». La strada cui don Ciotti deve tutto. E che gli deve tantissimo. Gabriella Montali

Da 40 anni la strada è la mia  parrocchia

» Back

Copyright © 2013. Magosales.com - C.F. 97619820018 P.Iva 08860260010