Capitolo IV
CAPITOLO QUARTO
VITA DI REVISIONE
In India, al confine delle grandi montagne, tra il brulicare di innumerevoli ruscelli e lo scorrere monotono delle stagioni, dicono che esista un piccolo lago a forma di stella, nel cui interno qualcuno ha nascosto i destini di tutti gli uomini. Il lago ha cinque punte e su ogni punta nasce un torrente che porta le acque del lago e i destini degli uomini verso il grande oceano. I torrenti si trasformano poi in fiumi e hanno percorsi diversi, a secondo della loro lunghezza. Alcuni arrivano molto presto al mare, altri percorrono chilometri e chilometri in variegati territori. Tutto sembra stabilito fin dall’inizio e le vite degli uomini sono segnate e affidate al tratto di fiume che dovranno percorrere. I fiumi sono sacri e le loro acque intoccabili, ma i bambini di quelle terre, come tutti i bambini del mondo, non conosco regole se non quelle del gioco ed è per gioco che, ogni tanto un bimbo va al fiume e rimescola le acque, riempiendo piccoli secchielli.
Così il destino di un uomo, improvvisamente cambia percorso o semplicemente si interrompe. La vita è proprio un gioco ed è affidato, a volte, al capriccio di un bimbo. Non scommettiamo mai sul nostro futuro, il domani potrebbe essere carico di grandi sorprese… brutte o belle… e non dipende da noi.
1981 La sorpresa che mi attendeva a Torino, non so definirla bella o brutta; certo, fu sufficiente a cambiare un tratto della mia vita di prete—mago.
Valdocco era ed è terra santa, perché terra di Don Bosco, uno dei più grandi santi che abbia avuto la chiesa nel secolo diciannovesimo. Tutto era grande a Valdocco… soprattutto era perfetto. A sentire alcuni anziani, si diceva che gran parte dei confratelli possedessero, anche se nascoste, qualità inimmaginabili, tanto da sembrare dei veri giganti di bravura e di santità. Se queste erano le premesse, non era certo necessario avere una mente stile Leonardo per immaginare il risultato di un accoppiamento così bizzarro: cioè tra l’eccezione stravagante della mia vita di prete-mago e la perfezione di un ambiente collaudato nel tempo. Era come mettere un rattoppo vecchio su un abito di gran classe. Nemmeno il Saggio, nel Vangelo, offre la sua benedizione a un tale connubio.
Praticamente ero stato inviato a sostituire un bravissimo salesiano, Don Gazzera, incaricato della disciplina nella prima scuola professionale fondata dallo stesso Don Bosco. Gli studenti, tra i 15 e 17 anni, erano più di 300, eppure nella scuola, nel cortile, nel refettorio regnava un ordine e una disciplina, stile “cortina di ferro”. Con tutto ciò i ragazzi volevano un gran bene a Don Gazzera, che esigeva da loro un tale comportamento. Come era possibile tutto ciò? Semplice! Quel salesiano usava un bene che tutti hanno, ma pochi usano: la ragione. Ogni intervento disciplinare non era mai impulsivo o di parte, ma motivato e inserito in un progetto educativo volto unicamente al bene dei ragazzi… e loro ne erano coscienti.
Io, dopo aver “assimilato” tutto ciò, incominciai a “fagocitare” la mia parte di copione, cercando di entrare, il più possibile, nel ruolo del “burbero benefico”, avvalendomi di ben studiati artifizi, tipo segnare con un gessetto tutte le mattonelle del pavimento su cui era solito posizionarsi Don Gazzera: lungo le scale, nei corridoi, in refettorio, nel cortile… in prossimità dei gabinetti… luogo ritenuto di particolare attenzione.
Naturalmente tanto era animata la ricreazione nei cortili, altrettanto dovevano essere silenziosi gli altri ambienti.
Il giorno precedente l’inizio della scuola, feci le prove generali: mi misi davanti ad uno specchio e valutai, tra le varie espressioni del mio viso, una in particolare che fosse la più solenne possibile. Usai anche del trucco teatrale per accentuare le ciglia e ridurre gli zigomi e mi immedesimai in un’immagine stile “kapò” anni ‘40.
Tutto era pronto per il grande debutto: la “prima” andò discretamente bene… ma le “repliche” furono un disastro… anche perché dopo non molti giorni, mentre mi trovavo con la mia faccia “truccata” in un ambiente all’aperto, si mise improvvisamente a piovviginare e il mio viso si rigò di piccoli solchi colorati, rendendolo simile a quello di un clown.
L’incanto era finito e la ricreazione divenne generale.
Con tutto ciò il rapporto con i ragazzi della scuola divenne sempre più cordiale, trasformandosi in vera amicizia e familiarità; fui considerato il loro fratello maggiore; una persona, cioè, a cui poter confidare segreti e preoccupazioni.
Queste ultime, però, le maturarono i miei confratelli salesiani, turbati dalla mancanza di silenzio e di disciplina nei vari ambienti della scuola, Così incominciai a sentirmi a disagio nella nuova casa salesiana.
In questa “precaria” situazione passai due anni in cui ero consigliere, animatore professore (insegnante di cultura in ben tre classi dell’istituto professionale), studente (iscritto al 9 anno di università) e prete. Con tutti questi incarichi non avevo più tempo di fare anche il mago. Tenevo sempre i miei attrezzi… animali compresi: 6 tortorelle e 2 conigli, alloggiati nella mia cella, all’interno di un armadio, a cui avevo inchiodato una rete metallica, trasformandolo in voliera.
Mi ero creato una sveglia “naturale”. Puntualmente alle cinque del mattino, venivo “introdotto” al nuovo giorno attraverso l’umile tubare delle tortorelle… un suono a me gradito e confacente con l’habitat quasi francescano di quei luoghi santi. Ben diverso era però il parere dei vicini di camera.
Così, mentre le mie quotazioni di simpatia da parte dei confratelli e dei superiori continuavano a calare, si allargava e cresceva dentro di me una situazione di disagio e di sofferenza.
“Chi è senza peccato scagli la prima pietra” fu detto ed io mi ritrovo, ancora oggi, nel mucchio di coloro che segretamente lasciano cadere a terra il sasso.
Certamente la colpa di tutto quel malessere fu anche mia, soprattutto quando incominciai a confondere “un” dono con “il” dono e preferirlo alla carità amorevole verso tutti.
Questo mi successe pochi mesi dopo il mio arrivo a Torino. Mi pareva di vivere fuori del tempo, in una dimensione “senza confini”, irrazionale e precaria nello stesso tempo… in uno stadio embrionale e primaverile. Erano i preamboli dell’innamoramento e questo non tanto verso le cose, il mondo o verso Dio, ma verso una donna… proprio lei, diversa da tutto e da tutte, unica.
Questo successe e io non feci nulla per allontanare quel sentimento… che tutt’ora sento bello e gratificante. Sentirsi amato è un desiderio di tutti ed io lo fui veramente. Era il tempo della tenerezza e della poesia.
Bianchi, tenui cesti di baci,
tiepidi come un fiore sbocciato
nella rugiada del mattino
tra l’incolto del bosco.
…Prime pratoline.
Sembri un oceano di luci,
un uragano di colori
e sei un nido
per la mia stanchezza.
Questo e altro ero solito scrivere e lasciare nei posti più impensati e noti solo a noi.
Del resto non facevo altro che attingere da un patrimonio di poesie scritte in precedenza per i ragazzi del Convitto di Cuneo in fase più o meno avanzata di innamoramento. Le scrivevo su ordinazione, a secondo dei casi e delle circostanze e mi divertivo un mondo.
Mai più avrei pensato di diventare così “sciocco” da farne un uso personale.
Perché sciocco lo era diventato veramente, ma, nello stesso tempo mi sentivo più buono verso gli altri, capace di affrontare la vita con meno paure.
L’esperienza fu talmente unica e grande che mi pare sprecato, ora, dire o definire i particolari. Non fu una vicenda da rotocalco. Ci fu soprattutto amore, sentimento, un po’ di passione e… tanta sofferenza.
Non me lo disse lei… Non avrebbe più potuto; lo seppi da altri in una mattina tiepida di fine inverno. Se n’era andata, in silenzio, sola su una panchina dei giardini di Torino, portandosi dentro il suo segreto… il nostro.
E’ troppo facile dire “Non c’entro”,
e distribuire demeriti e peccati;
è troppo comune pensare: “Non io”
e ritenersi diversi dai tanti,
illegali e amorali;
è troppo liberatorio dire: “Non m’interessa”,
e arroccarsi in un piccolo gruppo,
o setta di benpensanti;
è troppo semplice ripetere: “non so”
e nascondersi dietro coltri di paura;
Siamo come bimbi,
intrappolati nelle nostre bugie,
coscienti solo dei nostri privilegi.
Basterebbe chiedersi: “Perché?”,
mentre un gallo canta,
tra il vociare di serve curiose
accanto a un fuoco di sera.
che si consuma tra colpe e amarezze.
… le mie.
Poi incontri lo sguardo di Gesù che porta la croce.
E ti ritrovo povero,
vuoto di meriti,
carico di colpe
ma… ricco di perdono.
Al di la del Calvario,
sul fare del giorno
Tu, ancora ci attendi
per ridonarci una speranza
e un mondo nuovo,
come all’inizio del tempo.
1983 Le sopraffazioni, le ingiustizie, le guerre hanno una spiegazione: sono frutto dell’egoismo degli uomini, ma quale è la giustificazione alla sofferenza? L’esperienza del dolore, si dice che faccia parte della vita… ma non siamo stati creati per questo. Ancora, dicono che sia conseguenza di una colpa originale di quell’uomo o coppia, ma, che colpa abbiamo noi? Altri ancora affermano che il male è contrapposizione del bene e l’uno non può esistere senza l’altro… Bugie! Forse non ci sono spiegazioni logiche… nemmeno teologiche. Il dolore resta un’esperienza umana, preambolo dell’esperienza di Dio che bussa alla tua porta, ti invita a uscire e cammina con te. Questo passaggio, però, avviene gradatamente e in quell’intervallo di tempo e di sofferenza io decisi di prendermi una “pausa di riflessione”: si dice così per chi sta per lasciare la casa religiosa e uscire di Congregazione.
A settembre di quello stesso anno, lasciai la casa religiosa di Valdocco e caricai sulla macchina di mia sorella le poche cose che avevo per una nuova vita. Dove? Ancora non sapevo… ma quello era l’ultimo dei miei problemi.
Infatti a ottobre, un mio amico mi presentò ad un produttore televisivo di TeleMontecarlo: Noel Coutisson e dopo una settimana fui assunto come aiuto regista di due programmi televisivi: “Gli affari sono affari”, girati nei supermercati d’Italia e “Bim Bum Bambino”, registrato nelle scuole elementari.
1984: grandi novità
Intanto mi laureai in Pedagogia, con una tesi sulla “concezione e pratica religiosa dei lavoratori dipendenti di Torino e Cuneo e loro comparazione”.
Allora abitavo a Montecarlo, in uno studiò nel condomino degli aranci ma non mangiavo caviale e nemmeno bevevo champagne. La giornata era troppo corta per sommare insieme lavoro e passatempo, per cui mi accontentavo di un panino, una pizza o un’insalata francese, una lattina di coca-cola e di un caffè non italiano sorbito tra un viaggio, un lavoro sul set, una programmazione e mille altri impegni. La domenica era libera, ma ero talmente stanco che non riuscivo nemmeno a riposare.
Passò così un anno della mia vita, naturalmente tra pregi, difetti e… consuete abitudini, ben radicate nella mia personalità, quali una grande capacità di fantasticare messa a servizio di lavori sempre creativi e un innato senso di pigrizia, accoppiato con un incurante vissuto nel disordine più totale. L’alloggetto in rue des orangines (via degli aranci), dopo solo pochi mesi di abitazione, presentava più l’aspetto di una tana da campi profughi che di un luogo ameno tipo agrumeto in fiore. Avevo anche una mia teoria sulla polvere: dopo quattro mesi non fa più impressione e nemmeno si nota la crescita… Tanto vale allora diventane amico o, almeno, fare un patto di non belligeranza.
I pregi o i vantaggi che derivavano da questo nuovo stile di vita erano evidenti: imparai a vivere come un uomo comune, senza i privilegi che derivavano dall’essere parte di una casta sacerdotale. Mi mettevo in fila con gli altri e non avevo un medico o un barbiere personale e gratuito. Questo mi dava la possibilità di conoscere le difficoltà dei tanti. Inoltre ora ero libero di disporre non solo di cosa fare delle mie doti o del mio tempo, ma anche dei miei beni materiali, tipo una macchina, una casa e.. naturalmente del denaro. Potevo scegliere: o tenere tutto per me o distribuirne parte per aiutare gli altri. Scelsi quest’ultima opzione e divenni ricco non solo di meriti, ma anche di me stesso.
Ricordo che prestai ad una collega di lavoro una discreta somma di denaro per il saldo della sua nuova macchina, con la promessa che mi sarebbe stata restituita dopo pochi mesi, naturalmente senza interessi. I mesi passarono e passò anche la memoria del debito da parte della mia collega. Disse che il bugiardo ero io e non aveva mai ricevuto nulla da me. Io non mi ero fatto rilasciare una dichiarazione scritta, ma possedevo una buona fantasia e un discreto senso dell’umorismo, per cui, notte tempo, presi una bomboletta spray e decorai la sua macchina con una scritta tipo insulto. Risultato: la collega non si fece vedere al lavoro per due giorni, poi riprese a venire, ma servendosi dei mezzi pubblici. Riconosco di aver agito malamente e questo scritto equivale ad un “mea culpa”… ma, devo anche confessare che quel giorno mi tolsi una grande soddisfazione. Questo non fu certo l’unico peccato commesso in quel periodo della mia vita. Poco alla volta mi accorgevo che il lavoro occupava sempre più i miei interessi, tanto da farne da padrone. La conseguenza era la perdita progressiva del mio essere prete e del tempo dedicato alla preghiera, o, anche solo alla lettura, da me ritenta fondamentale per il mantenimento di una buona igiene mentale.
Così, ancora una volta, presi la decisione di voltare pagina e ricominciare.
Sul far dell’estate, lasciai Montecarlo, salutai colleghi e principali e ritornai a Torino, o meglio andai a vivere a Grugliasco, in provincia di Torino.
1984 Anche quell’anno dovevo vivere e… quindi lavorare. Ripresi a fare l’insegnante, o, meglio, il procacciatore e dispensatore di valori umani e spirituali. Ero diventato insegnante di religione in una scuola commerciale. Più che insegnare religione o cultura religiosa, cercavo di far capire a quei ragazzi l’importanza e la ricchezza della propria vita, del sentirsi vivo e della immensa capacità che abbiamo di amare e di essere amati. Questa è religione: partire dall’uomo e restare con l’uomo, salvato da Dio e quindi capace di voler bene. Ognuno di noi: cristiano, ebreo, mussulmano, ateo, buddista ha un grande destino e responsabilità: quella di far capire al nostro prossimo che nessuno è orfano su questa terra e l’essere e il sentirsi religiosi aiuta a vivere meglio questo impegno.
Così, a fine mese avevo meno soldi, ma molte soddisfazioni. Per i primi tempi tirai un po’ la cinghia: facevo un solo pasto al giorno e dormivo nel mio alloggio al secondo piano di uno stabile popolare, praticando uno stile asiatico tipicamente indiano: cioè sul pavimento tra un cuscino e una coperta: le uniche due cose che mi ero portato via dalla casa Salesiana di Valdocco.
A proposito: queste due cose mi aiutano ancora oggi a chiudere gli occhi su ogni giornata che muore, con un’unica grande differenza: sono accompagnate da un giaciglio classico con tanto di materasso ortopedico. Non penso di essere superstizioso, ma reputo questi due oggetti, il cuscino e la coperta, i miei portafortuna. Mi ci sono affezionato col tempo e li antepongo ad ogni cosa, anche a una abitazione o a una macchina e, quando non ci sarò più in questa vita, vorrei ancora averli con me. E’ l’unica cosa che chiedo.
Col tempo le cose migliorarono e nel giro di due anni completai l’arredamento. Appesi anche i quadri alle pareti e ripresi a fare esercizi di magia. Per arrotondare lo stipendio facevo spettacoli in vecchie sale da ballo o nei ristoranti frequentatati da poche coppiette, ma molte aitanti vedovelle o signorinelle di età indefinita. Vedendole ringraziavo la Chiesa per aver imposto il celibato ecclesiastico ai suoi preti. Diversamente, quando incontravo una bella ragazza, ringraziavo il buon Dio per aver creato cose così belle. Anche se ero a dieta, una semplice controllata al menù non poteva certo farmi male.
Non sapendo che io ero un prete, alcune “vedovelle” incominciarono anche a farmi delle avance e, considerando il fatto che avevano tutte una certa età e non erano un “fiore di beltà”, ebbi la triste percezione di essere diventato anziano.
1986 In quell’anno non ripresi soltanto ad interessarmi di giochi di magia. Ripresi anche a “fare il prete”, o meglio a “essere prete”.
Il mio cammino sulla via per Damasco era incominciato e la mia conversione pure. Il bello era che non fui io a incontrare Gesù. Fu lui a presentarsi a me, come ai due discepoli sulla via di Emmaus. Si presentò attraverso una suorina del Cottolengo, suor Lucia, di circa 75 anni, che mi accolse nella sua casa per anziani, dove rimasi 5 anni, facendo il cappellano. Bussai alla porta di quella casa della Divina Provvidenza in una mattina d’autunno, quando le scuole erano iniziate da soli due giorni. La superiora, suor Lucia, mi venne ad aprire e, alla mia richiesta di essere cappellano, mi rispose che non poteva prendere simili decisioni, senza prima consultare il Padre superiore. Nel pomeriggio mi chiamò e mi disse che il Padre aveva accettato la mia richiesta e lei era ben contenta di quella scelta.
Solo quattro anni dopo, quando suor Lucia dovette lasciare quell’impegno per limiti di età, mi disse che aveva sì consultato il Padre, ma non quello gerarchico con sede a Torino, in via Cottolengo, ma quello presente nel Tabernacolo: Gesù e da Lui ne aveva auto l’approvazione. Passai così 5 anni in cui feci veramente il prete e, a poco a poco, rinacque in me la voglia di Dio, l’amore per gli ultimi e il rispetto per me stesso.
Oggi ho nostalgia di quel periodo, forse perché col passare del tempo la mia conversione sa più di matrimonio invecchiato che di iniziale innamoramento.
1988 Centenario della morte di Don Bosco
Quando io nacqui, mia mamma mi aveva affidato a due grandi santi: santa Rita e san Giovanni Bosco; la prima era la santa degli impossibili, il secondo il santo dell’amorevolezza; insomma due santi adatti per tutte le stagioni ed io nel 1988, dalla crudezza del rigido inverno stavo entrando nel dolce tepore primaverile. Era la quiete dopo la tempesta. Santa Rita aveva fatto la sua parte e mia mamma pure (penso che abbia impiegato gran parte della sua vita a accendere candele alla Santa degli impossibili nel santuario di Torino); ora era il turno di Don Bosco… che mi accolse tra le sue braccia e i suoi figli proprio nel centenario della sua morte, durante le celebrazioni in suo onore.
Don Bosco è ufficialmente riconosciuto come il santo patrono dei giocolieri e dei prestigiatori. Per onorarlo come tale nel gennaio del 1988 avevo organizzato una grande manifestazione con i mie amici prestigiatori di Torino (l’allora Circolo amici della magia). Dai Salesiani di Valdocco avevo ottenuto il permesso di iniziare i festeggiamenti magici con un momento di preghiera e spettacolo nella grande chiesa di Maria Ausiliatrice, proprio all’altare do si trova l’urna di Don Bosco. Volutamente non avevo fatto propaganda di questo fatto, per cui ebbi un pubblico limitato, ma scelto. Ad entusiasmarsi e battere le mani era presente anche il Rettor Maggiore dei Salesiani: don Egidio Vigano. Quale occasione più bella per abbracciare il successore di Don Bosco e per ritrovare la forza di chiedere perdono ed essere nuovamente ammesso dentro la vera allegria salesiana.
1991. Due anni dopo lascio la cappellania del Cottolengo di Grugliasco, un laboratorio di magia in Torino dove avevo iniziato una scuola per giovani apprendisti “stregoni” e due camere in uno stabile popolare… La nuova destinazione è l’oratorio salesiano Michele Rua in Torino.